Archive for Luglio, 2013

Tortura, l’Italia è sola superata anche dal Vaticano

mercoledì, Luglio 31st, 2013

La decisione del Papa di cancellare la pena dell’ergastolo e di introdurre nell’ordinamento penale vaticano il reato di tortura, adeguandosi alle norme internazionali sancite dalla Convezione delle Nazioni Unite, è un segnale. Un segnale ai governi del mondo, oltreché a quelle gerarchie ecclesiali troppo spesso silenti davanti alla violazione dei diritti umani, se non addirittura conniventi con quei
regimi ma anche quelle democrazie che la praticano, più o meno sistematicamente. L’Italia, dove la tortura non è ancora punibile, è uno di questi Paesi. Anche se a ricordarlo ieri è stata solo l’associazione Antigone, Rifondazione comunista e un paio di parlamentari Pd.






Ratificata da 25 anni la Convenzione Onu contro la tortura, malgrado i richiami e le sanzioni europee, malgrado le sentenze di due diversi tribunali arrivate negli ultimi mesi – violenze a Bolzaneto e morte di Stefano Cucchi – che hanno annotato le difficoltà processuali derivanti dalla mancanza della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, l’Italia continua a tergiversare. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo. Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici – di ispezione e monitoraggio – e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali. 
Eppure non sono pochi i disegni di legge depositati in Parlamento: al Senato c’è quello di Felice Casson che nella scorsa legislatura si è bloccato ai primi passi in commissione Giustizia, e alla Camera ce ne sono almeno un paio, firmati da Luigi Manconi, Sel, M5S. Ma l’accordo tra le forze politiche è difficile da raggiungere, soprattutto su un punto: delitto generico o delitto proprio del pubblico ufficiale? Da noi è forte l’opposizione di certi sindacati di polizia e delle lobby militari a inquadrare la fattispecie di reato nell’ambito del delitto specifico, ossia commesso da persona nel ruolo di rappresentante dello Stato. E certa politica non riesce a emanciparsi. 

Anche su questo punto siamo sempre più isolati, in Europa. Agli antipodi dei Paesi dove la tortura è un delitto specifico (Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria), come scrive Patrizio Gonnella nel suo «La tortura in Italia» edito da DeriveApprodi. E ora superati anche dal Vaticano. 

È evidente che il Parlamento ha bisogno di una spinta per procedere sulla via della civiltà giuridica. Il disegno di legge di iniziativa popolare messo a punto da Antigone, Fuoriluogo, Unione delle camere penali e altre associazioni, ha quasi raggiunto le 50 mila firme necessarie. Si potrebbe partire da qui, per scuotere la politica appaltata o distratta da problemi giudiziari eccellenti.


FONTE: Il Manifesto

+InfoLab0.1 

DIAZ: la lettera di Mark Covell al giudice del tribunale di sorveglianza di Genova

martedì, Luglio 30th, 2013
Mark Covell

Qualche giorno fa è stata resa pubblica la lettera che Mark Covell, giornalista inglese finito in coma dopo la “macelleria messicana” delle scuole Diaz, ha spedito al tribunale di sorveglianza di Genova.
Ve la voglio qui riproporre sperando che nel frattempo venga fatta GIUSTIZIA .




       



         Dear Dr. Giorgio Ricci,

Mi chiamo Mark Covell. Sono il giornalista inglese che fu quasi ucciso nell’irruzione alla Scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Mi permetto di inviarLe questa lettera per esprimere ciò che provo a proposito delle condanne inflitte con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, lo scorso Luglio. So che ci saranno diverse udienze per decidere se i poliziotti condannati dovranno scontare la pena in carcere o no.
Nonostante non sia una pratica usuale per un giudice ricevere una lettera del genere, Vi scrivo per farVi sapere esattamente cosa provo, come una delle vittime più conosciute, e ciò che tutti noi della Diaz ci aspettiamo di veder fare, in nome della giustizia.
Chiedo a tutti coloro che considereranno il contenuto di questa lettera di comprendere che noi, vittime della Diaz, abbiamo vissuto un inferno che non si è fermato solo alla notte della “macelleria messicana”. Abbiamo visto da lontano, e talvolta anche da Genova o da Roma, queste persone condannate venire promosse di volta in volta, fino al punto in cui hanno potuto usare gli strumenti e le risorse del loro lavoro per intimidire, minacciare e mettere sotto sorveglianza le vittime di Diaz. Essi hanno inoltre ostacolato la giustizia, distrutto le prove ed eretto un muro di silenzio che abbiamo dovuto fronteggiare per anni. Non mi risulta che siano mai state pronunciate parole di comprensione o di scuse nei confronti delle loro vittime, né che vi sia stata resipiscenza rispetto ai fatti commessi.

Per quasi dodici anni, tutti noi della Diaz abbiamo visto uomini come Berlusconi e altri cambiare le leggi e le regole del gioco, in modo da permettere ai poliziotti di sfuggire a qualsiasi sanzione per le loro azioni nella notte della Diaz, come ad esempio la riduzione della prescrizione e l’introduzione di leggi volte ad assicurare l’immunità delle Forze di Polizia condannate a pagare una qualsiasi forma di risarcimento.
Ma, nonostante ciò che Berlusconi e altri politici hanno fatto, i superpoliziotti condannati della Diaz mantengono la loro buona parte di colpa e responsabilità.
Inoltre, sembra che i diritti dei criminali poliziotti condannati siano sempre stati tenuti in maggiore considerazione rispetto ai diritti delle vittime. Mettendo da parte tutte le promozioni, ad alcuni di questi uomini è stato permesso di dichiararsi nullatenenti per evitare di pagare un solo euro a titolo di risarcimento a noi vittime, lasciando l’onere ai contribuenti italiani. Inoltre, grazie all’indulto, nessuno di loro finora ha mai scontato un solo giorno di carcere, per i loro crimini.
A proposito dell’indulto, posso solo dire che è stato enormemente ingiusto vedere poliziotti che hanno scritto la pagina più nera della storia della Polizia Italiana, distruggendone la reputazione, essere autorizzati a beneficiare di uno sconto di pena significativo. Nel mio paese l’indulto è concesso solo a detenuti che hanno commesso reati minori e che comunque hanno già scontato una parte della pena. Non è concesso ad alti comandanti della polizia, che sono stati condannati per reati gravi come percosse, tentato omicidio delle vittime, falsificazione delle prove (vale a dire due bottiglie molotov), falsi arresti, false dichiarazioni, abusi e torture.
A proposito dei falsi arresti e delle false dichiarazioni, desidero sottolineare che il falso arresto per associazione a delinquere di vittime gravemente ferite è stato compiuto con il preciso intento di mandare in carcere le vittime per almeno 10-15 anni sulla base di false accuse e coprire ciò che Amnesty International ha chiamato “la più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dalla Seconda Guerra Mondiale”.
E qui stiamo discutendo se Gratteri e altri poliziotti condannati debbano scontare una pena di meno di due anni!
Dov’è il confronto? Come una delle vittime gravemente ferite della Diaz, vorrei vedere questi poliziotti scontare in prigione esattamente lo stesso periodo di tempo che loro stessi hanno tentato di infliggere a noi, sulla base di prove e dichiarazioni assolutamente false.
Spesso mi domando cosa sarebbe successo se il piano della polizia alla Diaz fosse stato portato a termine; sarei stato ingiustamente condannato e avrei scontato 15 anni in una prigione italiana, senza nessuna pietà. Quasi 12 anni dopo quella fatidica notte, ogni misericordia disponibile viene dispensata solo a favore di questi poliziotti, da un sistema legale che è incapace di proteggere i diritti delle vittime.
Il mio caso, in particolare, è stato archiviato perché nessuno dei molti poliziotti e funzionari presenti si è fatto avanti per testimoniare. A quanto pare nessuno ha visto o ha sentito, nonostante in quel momento io fossi l’unica persona in strada, sulla quale si sono accaniti i poliziotti. Vi prego di consultare la richiesta e il decreto di archiviazione del procedimento aperto per tentato omicidio in mio danno, se desiderate acquisire familiarità con il mio caso personale.

Anche se il desiderio dei poliziotti condannati di mandare le vittime in carcere per coprire i loro crimini non si è realizzato, le vittime hanno comunque dovuto subire una realtà se possibile ancora più insidiosa.
La maggior parte delle vittime internazionali del raid alla Diaz sono state illegalmente deportate nei loro paesi di origine, dove sono state accusate dai loro governi, e talvolta anche da amici e parenti, di essere criminali ed hanno dovuto affrontare un particolare tipo di discriminazione. I livelli di povertà e la profondità del danno sono estremamente elevati tra le vittime della Diaz. Alcuni di noi si sono ridotti ad essere senzatetto e a vivere per strada, ed è stato estremamente difficile essere trattati come terroristi dalle autorità del proprio paese, solo perché tutti hanno creduto alle menzogne raccontate da questi superpoliziotti condannati.
Per quelle vittime che non si sono fatte intimidire dalla prepotenza, dalle menzogne e dall’odio puro della polizia e che hanno osato tornare a Genova per lo svolgimento dei processi, è stato come vivere in una guerra in cui entrambe le parti si scrutano l’un l’altra attentamente, mentre il processo va avanti. Ogni volta che vedo poliziotti italiani divento incredibilmente nervoso. E’ così per tutti noi. Per noi le forze dell’ordine e i tutori della legge rappresentano la paura, il dolore, la tortura, il controllo totale della popolazione.
La vita per me a Genova è stata ed è sempre molto intensa. Viviamo tutti la paura che un giorno uno di noi incontrerà uno dei poliziotti della Diaz e le minacce già date saranno realizzate. Non riesco mai a rilassarmi quando sono in Italia. La maggior parte di noi si sente come se dovesse giocare perennemente al gioco del gatto col topo, per rimanere in vita qui.
E’ proprio per l’arroganza e per la completa mancanza di rimorso dei comandanti condannati, che dovrebbe essere applicata la massima sanzione possibile. Da parte dei condannati non ci sono state scuse significative né tantomeno alcun senso di rimorso. Non c’è stata e non c’è ancora nessuna collaborazione da parte loro sulle questioni in sospeso del caso Diaz. Tutti, in diversa misura, hanno eluso le domande, sono rimasti in silenzio nonostante il loro coinvolgimento fosse testimoniato da prove schiaccianti e hanno raccontato una marea di bugie alla stampa, rifiutandosi però di testimoniare in tribunale. Solo dopo la loro condanna in Cassazione alcuni di loro hanno dichiarato la propria innocenza, come Fournier e Canterini. Per le vittime della Diaz, i loro deboli tentativi per evitare la prigione, sono l’ultimo modo che hanno per sfuggire alle loro responsabilità per il raid.
Per quanto riguarda la verità su ciò che è realmente accaduto, la Procura ha affermato che c’è stato un vero e proprio muro di silenzio al quale, per una regola non scritta, ogni poliziotto si è attenuto. Questo muro di silenzio dai comandanti condannati, da tutta la polizia italiana e dal Ministero dell’Interno è assordante per le vittime della Diaz. Esso ha permesso ai poliziotti condannati, lungi dal mostrare rimorso o colpevolezza, di intimidire, mentire, ostacolare le indagini e distruggere le prove, nel tentativo di sfuggire all’azione penale. Ha inoltre impedito a me e ad altre vittime di avviare un processo per tentato omicidio, contro i già condannati superpoliziotti.
Infine, come detto sopra, l’irruzione alla Diaz è stata la pagina più nera della storia della polizia italiana. La sentenza definitiva della Corte di Cassazione deve essere accolta e, dal punto di vista delle vittime, ai comandanti di polizia condannati si dovrebbe applicare la massima sanzione possibile, in modo che ciò serva da esempio ad altri poliziotti su cosa non fare durante un’incursione per la ricerca di armi (Tulps 41).
In conclusione, prego il Tribunale di prendere in considerazione anche la voce delle vittime nella decisione che dovrà prendere.
          Come post-scriptum, trascrivo di seguito questa poesia chiamata ‘Total Eclipse’. E’ stata scritta da un’anonima vittima della Diaz nel 2006.

Yours sincerely

                  Mark Covell




Total Eclipse


I don’t know what is happening to me. The world around me collapsed. I have lost it. This will never be over. It will always stay like this. I will never be able to dance again. I will never be happy again. I will never love again. I will never laugh again. My world is pain and tears. My world is loneliness. My world is a black tower in a dark sea. My life is gone. Is this life still worth living? Loneliness. Pain, deeper than ever before. Why don’t I just go? Why don’t I just stop moving in the middle of the street.

Looking down the bridges. I could make it stop. Make this nightmare be over. So lonely, so lonely. I am alone. Alone in this sea of pain, alone with my screams. It nearly tears me apart. Nobody cares. I am scared of people. Can’t face seeing anybody. Hiding away. What if they ask how I am doing and I don’t know what to say. There are no words, only tears and screams. I can’t scream my pain in your face. So I hide.

My house is not my house anymore. How did my friends turn into people I am scared off? I don’t dare to leave my room. The risk to meet somebody on the corridor is too high. I am alone and I will never be happy again. Something else has taken control over me. A black ghost follows my steps and whenever he feels like, he throws me on the floor. It can happen any moment. I don’t dare to go out anymore.

I can lose it any moment and end up crying and winding in cramps on the floor. What if that happens on the street? I rather stay in my bed. What is there to do for me anyway? Nothing makes sense anymore. I cry. Cry like I have never cried before. Something is tearing my stomach out of my body. I nearly puke. I am not myself anymore. I am everybody. Every prisoner. Every body beaten up by the police. Every body who gets tortured. This feeling does not stop. Weeks, and weeks. I feel ashamed. I don’t want to appear weak. I don’t want to admit what they did to us had such an impact on me. Now I am nothing. Nobody shall see me like this

Aldrovandi, tornano liberi tre degli agenti condannati. Il sindacato: “Bentornati”

lunedì, Luglio 29th, 2013

Scatta il fine pena per Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro poliziotti in carcere per la morte di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto il 25 settembre 2005 a Ferrara.  Monica Segatto agli arresti domiciliari tornerà in libertà nei prossimi giorni. A fine agosto sarà il turno di Enzo Pontani. 
Il Coisp: “E’ un giorno speciale. Colleghi trattati come criminali incalliti”
 

Ricordatevi questi volti
Tornano liberi tre dei quattro agenti condannati per il caso Aldrovandi. E il primo commento è quello di Franco Maccari, segretario generale del Coisp, Sindacato Indipendente di polizia:

“Domani 29 luglio sarà un giorno speciale. Non solo perchè finalmente torneranno completamente liberi i colleghi travolti dalla drammatica vicenda, ma anche perchè registreremo il primo caso in Italia di condannati per mera colpa che scontano fino all’ultimo secondo della loro pena non in libertà. Finalmente la storia ha trovato qualcuno a cui far sentire tutta la severità della legge che diventa spietatezza; quando si deve rispondere all’onda emotiva che si leva dalla piazza ed alla voglia di vendetta di qualcuno che evidentemente conta più degli altri”.


Scatta il fine pena per Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro agenti di polizia in carcere per la morte di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto il 25 settembre 2005 a Ferrara durante una colluttazione con gli agenti che lo fermarono, poi condannati a 3 anni e 6 mesi per eccesso colposo nell’omicidio colposo del ragazzo. 
I due agenti stavano scontando, loro in carcere mentre gli altri due colleghi Monica Segatto ed Enzo Pontani ai domiciliari, i sei mesi di pena residua, dopo l’ applicazione e lo sconto dell’indulto alla pena base. Dunque dopo le pratiche di rito, con le notifiche dell’ordine di scarcerazione, per il fine pena, usciranno dal carcere dell’Arginone Luca Pollastri e Paolo Forlani. Monica Segatto è da tempo agli arresti domiciliari (anche per lei comunque scatterà il fine pena in questi giorni) mentre per Pontani, la cui condanna esecutiva e la conseguente carcerazione scattò quasi un mese dopo gli altri, per un cavillo tecnico, la libertà arriverà a fine agosto.
Con il fine pena si esaurisce la fase penale (processi, condanne e pene) del caso Aldrovandi, mentre restano ancora da applicare le sanzioni amministrative decise dal ministero degli Interni con il provvedimento disciplinare a carico dei quattro agenti, che prevedeva la sospensione di sei mesi dal servizio. Per i quattro agenti è ancora pendente il giudizio davanti alla Corte dei Conti dell’Emilia-Romagna, poiché la procura regionale della magistratura contabile contesta ai quattro poliziotti un’ipotesi di danno patrimoniale per il risarcimento che il ministero dell’Interno ha pagato ai familiari del giovane ferrarese: una cifra che si avvicina ai due milioni di euro motivata dai danni materiali e di immagine che vi sarebbero stati per la polizia e l’istituzione.
“Rimane”, ha continuato Franco Maccari, “e rimarrà sempre, come monito per tutti gli altri appartenenti alle Forze dell’Ordine, il trattamento da criminali incalliti riservato ai colleghi”, aggiunge Maccari, “gli unici entrati in carcere in Italia per scontare una condanna subita per una contestazione colposa negli ultimi 40 anni”. Maccari ha stigmatizzato il trattamento subito dagli agenti “a fronte di indegne concessioni di agevolazioni e trattamenti benevoli quando non di favore a criminali veri” mettendo l’accento sulle “storture di un sistema che sembra governato dai media invece che dalle leggi, un sistema in cui il boss dei boss Provenzano può lasciare il carcere duro (anche se le sue condizioni non cambieranno di fatto perchè resterà semplicemente affidato alle cure mediche come già è) perchè non ce ne sarebbero più i presupposti, ma quattro Poliziotti possono essere tenuti in carcere anche se non ce ne sono i presupposti”.



FONTE: Il Fatto Quotidiano


                                                     

@InfoLab0.1

Istanbul, “donne incinte spettacolo ignobile”

lunedì, Luglio 29th, 2013

#resistpregnant
 Decine di donne incinte di Istanbul sono scese in piazza ieri per protestare contro un avvocato e pensatore sufi che nel corso di uno show televisivo ha detto che le donne con il pancione in pubblico sono uno spettacolo “ignobile”. In piazza Taksim e a Kadikoy, sulla sponda asiatica del Bosforo, le donne in dolce attesa e i loro mariti, con cuscini sotto la maglietta, hanno sfidato l’ira del pensatore islamico Omer Tugrul Inançer “andandosene in giro” e gridando slogan come “il nostro corpo è nostro”.
 “Annunciare una gravidanza con uno squillo di trombe è contro la nostra civiltà. 

Non dovrebbero andarsene in giro per la strada con quelle pance. Prima di tutto è contrario all’estetica” ha detto Inançer durante un programma quotidiano serale per la fine del digiuno del ramadan sulla rete tv TRT.  “Dopo sette o otto mesi di gravidanza le future madri escono con i loro mariti in auto per prendere un po’ d’aria. E vanno fuori casa alla sera. Ma oggi sono tutte in televisione. E’ ignobile, non è realismo, è immoralità” ha detto Inancer. Che poi ha ribadito la sua posizione all’agenzia Anadolu. “Ti sposi e resti incinta. Va tutto bene, ma questo non può essere un motivo per il quale te ne vai in giro roteando la pancia. Questa immagine non è estetica. Sono cose da venerare e le cose da venerare vanno trattate con rispetto”. Secondo Inancer poi le aziende concedono permessi di maternità alle loro dipendenti proprio per consentire loro di restarsene a casa. Parziale presa di distanza da Inancer dalla Direzione per gli affari religiosi: “nell’Islam non c’è isolamento nei confronti delle donne e la maternità è un dono” si legge in un comunicato della Direzione. Tuttavia “le donne incinte dovrebbero prestare maggiore attenzione al loro modo di vestire, ogni donna dovrebbe farlo. Non dovrebbero indossare abiti che ne mostrino il ventre o le spalle”.

Subito dopo le sue parole su Twitter è nato l’ hashtag #resistpregnant. Altre proteste simboliche si preannunciano per i prossimi giorni.Anche l’opposizione non è rimasta a guardare, gridando a un nuovo segnale della “islamizzazione rampante” della Turchia sotto Erdogan. “Devono smetterla di prendersela con le donne in questo Paese. Se potessero, regolamenterebbero anche l’aria che le donne respirano”, ha tuonato Aylin Nazliaka. “Inancer dice che è sgradevole vedere donne incinte per strada. 

Ma non è sgradevole invece sentire il premier dire che devono avere almeno tre figli?” ha invece protestato il nazionalista Mehmet Oktay, che ha anche accusato la Trt di essere diventata un organo di propaganda del governo islamista.

FONTE: Contropiano.org

                                                                                                                                          @InfoLab0.1

Canale di Sicilia: 31 morti mai esistiti

domenica, Luglio 28th, 2013

Sono 31 i migranti che venerdì pomeriggio hanno conosciuto uno dei modi in assoluto più orribili per morire. Con l’angoscia di chi sa che è finita, in pochi secondi, e nel silenzio del mare aperto. Un silenzio assordante che rende vana qualunque sguaiata richiesta di aiuto. Poi giù, in fondo al mare. A rendere ancora più grave questa atrocità si è unito il silenzio rivoltante dell’indifferenza. Per la stampa nazionale italiana, quella dello stesso Paese che è riuscito a salvare 22 persone delle 53 naufragate, queste vittime non esistono. Non sono mai esistite. 


Sono morti senza mai essere stati vivi per molti tra i nostri più autorevoli organi di informazione.
Alle 20:30 di un qualunque sabato sera italiano sono arrivati 21 uomini e una donna nei cui occhi si poteva ancora leggere tutto l’orrore appena vissuto. Molti di essi, a bordo del guardacoste che li ha accompagnati nel “porto non sicuro” di Lampedusa, indossavano le tute da lavoro che l’equipaggio della petroliera Gaz United gli ha offerto quali unici indumenti asciutti a disposizione. Alcuni scendono con evidenti ferite, doloranti. 
Altri evidentemente sotto choc. Sono di varie nazionalità ma tutti della regione centro-occidentale dell’Africa. Partiti dal porto di Al Zuwara, a qualche decina di chilometri da Tripoli, in Libia, hanno visto improvvisamente sgonfiare il gommone con cui viaggiavano dopo appena un paio d’ore di navigazione.migranti soccorsi Morti in un silenzio assordante.

Si stavano finalmente lasciando alle spalle le vessazioni, la violenza, gli stupri, tutto quello che avevano vissuto in Libia per raggiungere la “civilissima” Italia. La stessa che intanto lanciava le banane sul palco a un proprio Ministro della Repubblica per puro, stupido razzismo scatenato dal solo colore della pelle. Evidentemente non sono propensi al dialogo, a differenza dei 250 sbarcati dai guardacoste della Capitaneria di Porto appena venti minuti prima. Un ragazzo, presumibilmente nigeriano, racconta, con poche parole in un egregio inglese, come in breve hanno visto afflosciare i tubolari del gommone e si sono ritrovati in acqua. A 29 miglia dalla costa. 

Dice di aver visto i suoi compagni risucchiati uno dopo l’altro dagli abissi del Mediterraneo, sotto i propri occhi. Un altro, sempre in inglese, con un espressione quasi alienata, borbotta solo una frase: “I saw my wife drown”. “Ho visto annegare mia moglie”.



FONTE: LinkSicilia 

                                                                                                                                    InfoLab0.1

Bologna, il PD disconosce il referendum (e la scuola pubblica)

mercoledì, Luglio 24th, 2013

Virginio Merola

A Bologna qualche mese fa è successo l’impensabile. Un comitato di cittadini nato spontaneamente dal basso ha proposto un referendum per dire no al finanziamento comunale delle scuole private, in gran parte cattoliche. Per far capire come, soprattutto in un periodo di crisi e tagli, sia importante finanziare i servizi pubblici che vanno a beneficio di tutti e difendere la laicità delle istituzioni, piuttosto che lasciare in appalto certi settori al confessionalismo. E il referendum, nonostante la disparità di forze in campo e l’opposizione dei potentati locali, degli amministratori, delle istituzioni nazionali e della Chiesa, è stato vinto dal Comitato Articolo 33, sostenuto da sindacati e partiti come Idv, Movimento 5 Stelle e Sel, Rifondazione e Comunisti Italiani, e anche dall’Uaar. Un risultato che, sebbene non vincolante trattandosi di referendum consultivo e contestato per la bassa affluenza alle urne, assume un valore simbolico e apre la strada per ulteriori battaglie.



Tutto questo però al Comune di Bologna, guidato dal sindaco Virginio Merola (Pd), non interessa. Anzi, l’intenzione è quella di affossare il risultato del referendum, come scrive Alex Corlazzoli sul suo blog del Il Fatto Quotidiano. Proprio il Partito Democratico ha presentato in consiglio comunale un ordine del giorno, che sarà votato il 29 luglio, per confermare il finanziamento alle paritarie. Su questo il Pd ieri ha presentato una delibera (solo il consigliere Francesco Errani ha fatto sapere che si asterrà), con l’appoggio del Pdl. Certo, le obiezioni sono note e la questione non è semplice da gestire, ma il voto dei cittadini non può essere ignorato. Anche perché il referendum comunale è l’unico strumento di partecipazione disponibile, specie in un momento di scarsa credibilità dei partiti e della politica “di palazzo”. 

A protestare contro il tentativo del colpo di spugna a Palazzo d’Accursio sono scesi di nuovo in piazza i promotori del comitato referendario, con una veglia-staffetta in Piazza Maggiore. Anche la nostra associazione ha fatto la sua parte.

L’esperienza bolognese non può non far sorgere una riflessione sul Pd, che vorrebbe essere un partito progressista. Il Pd è nato dalla fusione tra un apparato politico ex comunista e uno ex democristiano. Tra gli accordi non scritti c’è evidentemente sempre stato il dogma della non conflittualità con le gerarchie ecclesiastiche. Quando, come sui cosiddetti temi “etici”, non si può proprio evitare, va comunque minimizzata. Se però entrano in gioco anche i costi pubblici della Chiesa, per il Pd diventa allora impossibile anche solo pensare di metterli in discussione. A costo di rischiare la farsa e l’aperta impopolarità. Ma una messa val bene Parigi, par di capire. 
Anche Bologna.

FONTE: La redazione di Uaar

Scandalo Amazon, tra illegalità e inumanità

mercoledì, Luglio 24th, 2013

É sempre un gran peccato quando qualcosa che eravamo soliti ritenere efficiente e affidabile viene scoperta essere meno ineccepibile di quanto si pensasse. Lo scandalo finito sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani tedeschi riguarda Amazon, popolarissima compagnia di commercio elettronico americana, famosa per le sue spedizioni ultra-rapide e per il più vasto catalogo di libri acquistabili online.

Un’inchiesta della Ard, principale gruppo radiotelevisivo pubblico in Germania, ha però suscitato un clamore enorme svelando come Amazon, compagnia con un fatturato annuo da 9 miliardi di dollari e una fetta di mercato pari al 20%, permetta che i dipendenti di uno dei centri tedeschi di smistamento della compagnia vivano in condizioni a dir poco inumane.



Il reportage è stato girato nella sede di Bad-Hersfeld, nello stato federale dell’Assia, quasi perfettamente al centro dello stato tedesco e per questo motivo, svincolo fondamentale per il movimento delle merci ovunque in Europa. Durante il periodo di Natale il personale occupato aumenta in quella sede di circa 5 mila unità a causa della mole enorme di lavoro da smaltire. Ad occuparsi dell’assunzione non è la stessa Amazon, ma un’agenzia interinale che, sfruttando il nome del colosso americano, riceve migliaia di richieste all’anno. In realtà però come il reportage ha mostrato i contratti “non riconoscono il versamento di contributi sociali e, soprattutto, prevedono una decurtazione del salario del 12% rispetto a quanto promesso in origine. In quasi tutti i casi i lavoratori, ancora a digiuno di tedesco, non capiscono neppure quel che firmano, visto tutte le carte sono compilate in lingua locale”.

Ma c’è di peggio. La maggior parte degli impiegati sono di origine straniera, spesso spagnoli a causa dell’enorme tasso di disoccupazione di quel paese e nel contratto viene promesso anche l’alloggio. Questi però risultano poi essere miniappartamenti in cui vengono stipati anche in sei per stanza, con condizioni igieniche precarie, lontanissimi dal posto di lavoro che viene raggiunto con delle navette spesso sovraffollate, il cui ritardo, causato da neve o traffico, incide sullo stipendio del personale. Chi si permette di criticare, ovviamente, viene licenziato in tronco.

Quello che ha destato più scalpore però sono le connotazioni politiche delle persone destinate – full-time- ad occuparsi della sicurezza dei lavoratori. Una delle agenzie della security infatti impone ai propri dipendenti vestiti recanti la scritta H.e.s.s., certamente come Hensel European Security Services ma che tetramente ricorda anche Rudolf Hess, uno degli uomini più conosciuti ed influenti durante il periodo nazista. In più alcuni dei capi utilizzati erano della Thor Steinar, marca simbolo dei neonazisti tedeschi.

Interpellato dai giornalisti un portavoce della compagnia ha dichiarato che all’interno dell’azienda non sono ammesse discriminazioni e che i contratti a tempo determinato, tipici del periodo di Natale, sono banchi di prova del personale “nella prospettiva di un impiego a lungo termine”. Nulla di strano, insomma.

Tutto ciò però avviene in Germania, in cui ogni minimo riferimento al nazismo viene acuito e in cui una vicenda come questa riporta alla memoria le parole di Angela Merkel per le celebrazione del 27 gennaio di quest’anno: “Olocausto, la nostra responsabilità è permanente”. In realtà però pare che vicende simili non rappresentino una novità per l’azienda, poiché un’altra inchiesta, nel magazzino di Lehigh Valley, in Pennsylvania, fatta questa volta dal The Morning Call, un giornale locale, aveva portato alla luce condizioni degradanti per gli impiegati locali, con turni di dieci ore e pochi minuti di pausa.

Insomma, mentre alcuni clienti tedeschi giurano che inizieranno a boicottare la compagnia statunitense, risuona forte l’incoerenza della pioggia di critiche fatte alla Foxconn cinese per la produzione di pezzi Apple, con condizioni di lavoro molto al di sotto degli standard occidentali. 
Quale Occidente, però, non si sa.



FONTE

No Tav: Manganellate, insulti e palpeggiamenti da parte delle forze dell’ordine ai danni di un’attivista [VIDEO]

lunedì, Luglio 22nd, 2013

No Tav, la denuncia dell’attivista pisana: “Manganellate, insulti e palpeggiamenti da parte delle forze dell’ordine”



Marta “NoTav” Camposana
“Da quando mi hanno fermata a quando mi hanno portata all’interno del cantiere sono stati dieci minuti di follia. Ho ricevuto una manganellata in faccia, mi hanno toccata nelle parti intime e mi hanno insultata”. A parlare, durante la conferenza stampa organizzata dal movimento No Tav a Susa (Torino), è Marta Camposana, attivista pisana di 33 anni che è stata denunciata per resistenza.



“Le forze dell’ordine – ha raccontato – ci hanno chiusi con due cariche e bersagliati con una pioggia di lacrimogeni. Poi sono stata colpita da una manganellata alle spalle e trascinata a terra. Una volta nel cantiere ho detto che avevo bisogno di un medico, ma mi hanno nuovamente insultata e portata al pronto soccorso soltanto quattro ore dopo, alla fine delle procedure in questura, dove mi hanno denunciata solo perché avevo del Maalox e dei limoni per contrastare i lacrimogeni”.

“Gli arrestati della scorsa notte sono degli eroi”, ha sostenuto poi Nicoletta Dosio, portavoce del movimento No Tav, durante la conferenza stampa successiva agli scontri al cantiere di Chiomonte. ”Ero presente anche io – ha aggiunto – e le forze dell’ordine hanno sparato lacrimogeni ad altezza d’uomo anche sulla gente che defluiva. E’ stata usata violenza inaudita. Oggi siamo qui per dire basta”. Secondo Dosio, i pubblici ministeri Andrea Padalino e Antonio Rinaudo erano presenti all’interno del cantiere “soltanto per convalidare arresti già decisi”.

—>[VIDEO]


FONTE

Ci siamo: L’Italia è ufficialmente in vendita

domenica, Luglio 21st, 2013

Il Ministro Saccomanni, da Mosca dove partecipa al G-20, con un’intervista a Bloomberg TV, fa sapere al mondo che siamo pronti a vendere tutto quello che ci è rimasto: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Fincantieri e reti di tubi, cavi, fili ottici, ecc. (Telekom, Saipem, Terna,ecc…).




Il tutto per ridurre d’un tratto una quota consistente di debito pubblico. La pressione del debito sull’Italia arriva al suo obiettivo principe, denudare il paese del controllo delle sue imprese strategiche ancora in parte in mano pubbliche e regalarle al mercato globale, alla ricerca insaziabile di commodities tariffarie permanenti con cui spennare i cittadini nei prossimi decenni e, dall’altra parte, per cancellare gli ultimi residui di sovranità reale e politica del paese.

La colonizzazione dell’Italia sta concludendosi con il più classico degli esiti delle procedure da indebitamento previste dai manuali neoliberisti di area anglosassone, già sperimentati in ripetute occasioni nel corso degli ultimi 30 anni a discapito dei paesi dell’est Europa e del sud del mondo.

Il bel boccone sta per essere ingoiato grazie alla collaborazione attiva e fattiva della fraziona nazionale della grande borghesia globale (economico-politica), di cui il governo di larghe intese con a capo il giovane pupillo di Bilderberg e Trilaterale (che succede al professore –tecnico- di Bilderberg e Trilaterale), è l’espressione mondana e volgarizzata ad uso delle masse.

D’altra parte, se andate a rileggervi le intenzioni del giovane Letta in tempi non sospetti, vedrete che il progetto è in campo da tempo e che non è affatto casuale che proprio lui sia stato nominato premier.

La nuova colonia del sud Europa, con le spalle al muro per non aver saputo reagire alle pressioni in atto da anni e per non aver avuto la forza di far pagare il debito a chi lo ha prodotto e a coloro che ci si sono arricchiti, devolve ora il suo residuo patrimonio agli stessi soggetti: usurai internazionali e nazionali e coloro che vi orbitano attorno come satelliti locali acquisiranno i beni; con i loro introiti pagheremo gli interessi sul debito agli stessi soggetti centrali e periferici che “compreranno” le quote in vendita. Una partita di giro colossale e definitiva che cancella un patrimonio costruito con il lavoro di 4 e passa generazioni di italiani.

Parallelamente, come conseguenza di queste scelte e a seguito delle enormi ristrutturazioni che avverranno sul corpo dei beni pubblici, sarà ulteriormente attaccato il patrimonio privato delle famiglie: case e compagnia bella, già per altro abbondantemente a rischio.

C’è pochissimo tempo per tentare di opporsi a questo disegno che altrimenti conformerà il futuro delle prossime generazioni: al contrario di quanto sostiene l’anziano duce, bisogna tentare di far saltare il governo Letta e scomporre le deboli forze che lo sostengono. Non è operazione impossibile se i movimenti sociali  riprendono con convinzione il centro della scena.

1°      Bisogna essere coscienti e comunicare chiaramente alla gente che i nomi di queste grandi imprese (al di là della loro gestione spesso malsana attuata dalla politica) sono ciò che il lavoro italiano ha realizzato nel corso del ‘900.

2°     Che il debito deve essere immediatamente ricontrattato e ridotto facendo pagare gli speculatori e gli usurai e coloro che hanno contribuito a farlo crescere (evasione fiscale che possiede gran parte di questo debito) con una patrimoniale secca in grado di recuperare almeno la metà di quanto si sono appropriati negli ultimi 30 anni.

3°      Bisogna uscire dai parametri posticci elaborati in sede EU e dai diktat della Troika proprio per mettere sul lastrico interi paesi e invece rilanciare l’occupazione attraverso massicci investimenti pubblici.

4°     Bisogna predisporci ad un default controllato in grado di portarci dietro tutti coloro (singoli poteri e paesi) che intendono profittare dalla crisi italiana e del sud Europa. Non è mai stato così adeguato l’antico detto “muoia Sansone con tutti i Filistei”.



Se saremo in grado di far questo daremo un contributo storico non solo al nostro paese, ma anche all’Europa e al mondo.

FONTE

Bologna: 41 facchini licenziati, reintegrati dopo le proteste

sabato, Luglio 20th, 2013
La soluzione, ottenuta in seguito a numerose settimane di manifestazioni, prevede l’inserimento di 23 operai in diversi magazzini a tempo indeterminato. Entro il 30 settembre inoltre, le parti si incontreranno per studiare un percorso per il ricollocamento degli altri operai in cassa integrazione.




E’ fumata bianca per i 41 facchini licenziati dal consorzio SGB, protagonisti degli scioperi alla Centrale del Latte di Bologna. Dopo mesi di blocchi, proteste e trattative con i vertici dell’azienda, che in appalto gestisce i magazzini della Granarolo, si è trovato un accordo in grado di risolvere “le questioni più urgenti per i lavoratori migranti”, lasciati a casa “per aver manifestato”.
“Grazie ad un confronto telefonico con il Prefetto – racconta Aldo Milani, coordinatore nazionale del Si Cobas – siamo arrivati a una proposta che prevede l’inserimento di 23 operai in diversi magazzini a tempo indeterminato”, con una posizione contrattuale analoga a quella che avevano presso le cooperative per le quali lavoravano, Global Logic, Planet Log e Work Project, “superando quindi il periodo di prova previsto a inizio rapporto di lavoro”. Inoltre, continua Milani, “è stato formulato l’impegno a incontrarsi entro il 30 settembre per verificare un percorso per il ricollocamento degli altri operai ancora in cassa integrazione in deroga”. Ai facchini verrà riconosciuto il pagamento della retribuzione dalla data del licenziamento al reintegro con l’accesso alla cassa integrazione in deroga al 1° luglio e, “cosa estremamente importante, senza nessun accordo tombale sul pregresso, che riguarda somme che superano le 20.000 euro ad individuo”.

“Un bel risultato” commenta il sindacato di base, specie se si considera che “nel corso della prima trattativa in prefettura, il testo che ci era stato presentato dall’azienda e dai sindacati confederali si limitava ad accusare i lavoratori di disordini, stravolgendo la realtà dei fatti e imputando il loro licenziamento a una questione di ordine pubblico”. E se si tiene conto che i due mesi previsti dalla normativa per attivare la cassa integrazione successiva al licenziamento stavano ormai per scadere. Al quarto confronto in Prefettura, “la proposta che ci hanno presentato poneva l’accento sul fatto che si doveva arrivare ad accettare un patto tombale sul pregresso in cambio di 1.000 euro, 12 rientri in altri magazzini al di fuori della Granarolo e, soprattutto, che se non si accettava l’esito di tale “confronto” non si poteva accedere alla cassa integrazione, visto che mancavano pochi giorni alla scadenza dei termini previsti per attivare tale strumento. Siamo riusciti a ottenere condizioni migliori, ma visto il tempo limitato a disposizione abbiamo deciso di firmare”.

E sancire così il “lieto fine” nel quale 51 lavoratori – i 41 licenziati e i 10 messi in cassa integrazione “quando l’azienda si è accorda di non aver spedito loro le lettere di licenziamento” – manifestazione dopo manifestazione, non avevano mai smesso di sperare: qualcuno di loro, del resto, ha il permesso di soggiorno per vivere in Italia, e senza lavoro finirebbe per perderlo. La disoccupazione, quindi, non se la può permettere. Qualcun altro, poi, ha famiglia, bambini da mantenere, “da mandare a scuola”. L’accordo, a cui il prefetto di Bologna Angelo Tranfaglia ha chiesto a tutte le parti interessate “di tenere fede”, è una boccata d’aria fresca. “Finalmente – sorridono i facchini nel ricevere la notizia – torneremo a lavorare”.

La battaglia dei lavoratori della logistica era iniziata qualche mese fa, quando i dipendenti di Global Logic, Planet Log e Work Project, cooperative della SGB, si erano trovati in busta paga una trattenuta del 35% dello stipendio, per “stato di crisi”. Una trattenuta approvata in assemblea dalla maggioranza dei lavoratori, ma da alcuni ritenuta “troppo cara” tanto che, subito dopo, erano iniziate le proteste. Ai blocchi davanti ai cancelli della Centrale del Latte di Bologna e agli scioperi portati avanti dai lavoratori, affiancati da Cobas e da Crash, a ritmi serrati, però, l’azienda aveva deciso di rispondere inviando le lettere di licenziamento. Alcuni facchini, a quel punto, dopo essersi scusati, erano stati successivamente reintegrati ma i 51 interessati dall’accordo avevano deciso di “non cedere”. Continuando, settimana dopo settimana, a protestare contro licenziamenti che il Cobas aveva definito “politici”, e anche contro il parere della commissione nazionale di garanzia sugli scioperi, che aveva equiparato le manifestazioni all’interruzione del pubblico servizio. “La nostra categoria lavora duramente, ci spacchiamo la schiena nei magazzini dove transita la merce che finisce nei supermercati, eppure siamo invisibili – racconta Abdel Ghani, ex dipendente della SGB, licenziato per aver scioperato – il padrone ha inventato una fantomatica crisi che però sui bilanci non c’è, mentre sulla busta paga si è tradotta in un meno 35% di stipendio. Circa 600 euro in meno ogni mese. E quando abbiamo alzato la testa prima siamo stati sospesi, poi cacciati. E pensare che Granarolo e Coop Adriatica sono due fiori all’occhiello della sinistra di questa città, storicamente rossa”.

E alla fine, la loro battaglia l’hanno vinta. Perché dopo una lunga trattativa tra azienda, sindacati e prefetto, infine, l’accordo è stato siglato e presto, tutti i facchini potranno tornare a lavorare. “Avremmo anche potuto continuare a lottare per ottenere l’immediato ricollocamento di tutti i lavoratori coinvolti, anche perché come si è dimostrato, è solo tramite la protesta che la situazione è in via di risoluzione – sottolinea Milani – ma se non avessimo firmato avremmo rischiato di non riuscire ad attivare la cassa integrazione. La nostra priorità, ora, sarà quella di trovare una soluzione per gli altri lavoratori”.

Contemporaneamente, poi, Cobas ha annunciato che avvierà una vertenza legale contro CTL per ottenere la “restituzione di quell’1,2 milioni di euro decurtati illegalmente dalle buste paga dei facchini”: “Il buco che motiva il taglio del 35% degli stipendi dei lavoratori della logistica è stato contratto dalle cooperative con le banche e non è giusto che a farne le spese siano i facchini, che già guadagnano stipendi bassi a fronte di turni da 12 ore al giorno. Per questo ieri abbiamo raccolto le firme dei lavoratori che ci hanno dato mandato e nei prossimi giorni invieremo il documento al giudice”. La vertenza, spiega Milani, “sarà contro CTL, l’azienda committente, perché è inutile attivarla contro tre cooperative in crisi che non pagheranno mai”.

di – Annalisa Dall’olio – 


FONTE: Il Fatto Quotidiano