Archive for Aprile, 2012

Il carbone dell’Enel fa un morto al giorno e costa due miliardi l’anno.

lunedì, Aprile 30th, 2012

Greenpeace Italia anticipa al Fatto Quotidiano il suo rapporto su Enel, basato sulle ricerche della fondazione olandese SOMO e della European Environmental Agency (EEA). Investimenti minimi nelle nuove rinnovabili, sostegno anacronistico al carbone e nucleare all’estero.

Un morto al giorno, 366 l’anno per la precisione. Sono quelli riconducibili all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel secondo la proiezione della Fondazione Somo per Greenpeace Italia. Applicando i parametri dell’Agenzia Europea per l’Ambiente alle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia ex pubblica emerge che “le morti premature associabili alla produzione di energia da fonti fossili di Enel per l’anno 2009 in Italia sono 460. I danni associati a queste stesse emissioni sono stimabili come prossimi ai 2,4 miliardi di euro. La produzione termoelettrica da carbone costituisce una percentuale preponderante di questi totali: a essa sono ascrivibili 366 morti premature (75%), per quell’anno, e danni per oltre 1,7 miliardi di euro (80%)”. Un responso implacabile che la Fondazione ha trasmesso all’Enel ricevendo, purtroppo, risposte molto elusive.

“Lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili unito alla perdurante stagnazione della domanda di energia elettrica sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendo a rischio la possibilità di tali impianti di rimanere in esercizio”. L’ha dichiarato un mese fa Paolo Colombo, presidente dell’Enel, seguito a ruota dall’amministratore delegato Fulvio Conti, che ha chiesto di “correggere le forme di incentivi per le fonti rinnovabili” calibrando meglio i sussidi nel prossimo decreto allo studio del governo nazionale, per “dare impulso ad altre filiere”.

Il mondo sta cambiando, la produzione di energia è sempre più diffusa e decentrata, ma l’Enel non vuole mollare: il suo vecchio mondo, quello delle grandi centrali a gas, carbone, uranio, olio combustibile deve essere preservato. “Enel è entrata a gamba tesa sul tema dell’incentivazione alle rinnovabili – ha dichiarato a Repubblica.it il senatore del PD Francesco Ferrante – . Le cose sono due: o si tratta di disinformazione o di una sorta di confessione di chi guarda al passato e ha paura del futuro”.

Per Greenpeace Italia non ci sono dubbi: Enel ha paura delle rinnovabili perché è ancorata al passato o si affida a tecnologie di dubbia efficacia. “Se si eccettua l’idroelettrico, che in Italia è semplicemente un’eredità di investimenti passati e in altre regioni, come in America Latina, è collegato a progetti potenzialmente ad alto impatto ambientale, gli investimenti di Enel nelle rinnovabili sono minimi, specialmente in Italia ed Europa, dove la riduzione delle emissioni di Co2 è affidata al nucleare o a improbabili tecnologie come la cattura e sequestro del carbonio (Carbon Capture Storage o CCS)”, ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.

Nel suo rapporto, che ilfattoquotidiano.it ha ottenuto in anteprima, Greenpeace non si limita a puntare il dito, come ha già fatto più volte in passato, sul mix energetico “anacronistico” di Enel, ma analizza per la prima volta i costi esterni delle centrali Enel a carbone e petrolio. “Si tratta dei costi per l’ambiente, l’agricoltura e la salute dei cittadini. Sono voci di costo che non compaiono nei bilanci, perché la società non li paga. A pagare è però l’ecosistema nel suo complesso”.

Greenpeace fa riferimento a un rapporto della fondazione olandese SOMO, che uscirà nei prossimi mesi, e allo studio della EEA (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea, uscito nel novembre del 2011. Lo studio dell’EEA individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. In Italia il primato spetta alla centrale a carbone Federico II di Brindisi, gestita dall’Enel, i cui costi esterni (calcolati dall’EEA) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009: una cifra che supera i profitti che Enel ottiene dalla centrale. “E’ un gioco pericoloso, che non vale la candela”, continua Onufrio. “I profitti sono ottenuti con un prezzo altissimo per l’ambiente e la salute”. Greenpeace Italia ha esteso la metodologia utilizzata dallo studio dell’EEA a tutte le centrali a carbone gestite da Enel in Italia ed è arrivata a conclusioni preoccupanti: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro – oltre il 40% dell’utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011”, si legge nel rapporto. “Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro – che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone – i costi esterni potrebbero toccare la quota di 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, costi da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”.

Al termine del rapporto, Greenpeace chiede ad Enel di effettuare al più presto una valutazione dei costi esterni delle centrali a combustibili fossili, riportando i risultati all’interno del bilancio di sostenibilità. Tra i quesiti rivolti ad Enel non mancano i riferimenti al progetto per la centrale a carbone di Galati, in Romania, “in un’area già colpita da decenni di inquinamento dell’industria pesante rumena” e alla centrale Reftinskaya GRES, nella regione di Ekaterinburg, in Russia, che sarebbe stata accusata di “violazioni di norme ambientali” da parte delle autorità locali. Altre domande riguardano i reattori nucleari Cernavoda 3 e 4, che Enel gestisce in Slovacchia e il progetto Baltic NPP a Kaliningrad, in Russia, per la costruzione di un nuovo reattore nucleare.

Alcune delle domande di Greenpeace sono state inoltrate alla società dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) azionista “critico” di Enel dal 2007. Enel sarà tenuta a rispondere entro il giorno dell’assemblea, prevista per lunedì 30 aprile. Tra gli azionisti saranno presenti, oltre alla Fondazione di Banca Etica, anche il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – delegato dai Missionari Oblati – e l’attivista colombiano Miller Armin Dussan Calderon, professore dell’Università Surcolombiana e presidente di Assoquimbo, associazione dei comitati locali colombiani che presidiano il territorio contro la costruzione della diga Enel di Quimbo in Colombia. Ramazzini e Calderon porteranno in assemblea la voce delle popolazioni del sud del mondo impattate dai progetti idroelettrici della compagnia italiana. L’assemblea potrà essere seguita online sul sito del Fatto Quotidiano e su Twitter (#nonconimieisoldi e #azionisticritici).

FONTE: “il Fatto Quotidiano”

ARTICOLO DI: Marco Atella & Andrea di Stefano

Il Ministro Severino e la censura dei blog.

sabato, Aprile 28th, 2012
Il Ministro Paola Severino

Immaginiamo che il Ministro della Giustizia di un paese diversamente democratico come pochi al mondo se n’esca così: “I blog possono fare più danni dei giornali. Il cittadino ha il diritto di interloquire con un altro. Ma deve seguire le regole. Scrivere su un blog non autorizza a scrivere qualunque cosa, soprattutto se si sta trattando di diritti di altri. I blog hanno capacità di diffondere pensiero ma questo non deve trasformarsi in libertà di arbitrio.”
Se il paese in questione fosse realmente democratico, il cittadino avrebbe il sacrosanto diritto di interloquire con chiunque, ovvero con quanti desideri, e di pensare, parlare e scrivere di qualunque cosa gli passasse per la mente, con il proprio inviolato libero arbitrio, al netto poi di risponderne personalmente di fronte alla società e alla legge che ne regola la vita.
Altrimenti, dicesi censura: controllo della comunicazione o di altre forme di libertà (libertà di espressione, di pensiero, di parola) da parte di una autorità.

FONTE: Storie e Notizie

Benvenuti nel Bel Paese. Fotografia dei C.I.E. italiani.

venerdì, Aprile 27th, 2012
…luoghi di detenzione e maltrattamenti, dove suicidi, pestaggi, abusi di psicofarmaci e tentativi di fuga sono all’ordine del giorno.
Questo è il quadro che dà il Corriere.it dei C.I.E.(Centri d’Identificazione ed Espulsione) italiani.
Per i migranti privi di documenti infatti, questi “centri” diventano vere e proprie prigioni in cui essere segregati,la loro colpa? Un illecito amministrativo.

Condizioni indecenti, denunciate anche da un rapporto stilato dalla Commissione Diritti Umani del Senato, sulla violazione dei diritti umani negli Istituti Penitenziari e nei centri di “accoglienza” per migranti in Italia che fa notare come – “le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei C.I.E. sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri” – situazione condannata qualche giorno fa anche dall’ O.N.U..

Le cronache recenti hanno portato alla luce storie, non solo di migranti in attesa di identificazione, ma anche di minori non accompagnati e infine casi come quello di Andrea e Senad, due giovani ventenni di origini slave, che all’età di 18 anni non furono naturalizzati dai genitori all’ambasciata bosniaca e quindi rinchiusi nel C.I.E. di Modena.
L’assurdità è che i due fratelli, nati in Italia e perfino iscritti in una scuola a Sassuolo, sono italiani per tutti ma non per la burocrazia, infatti Andrea e Senad non possono essere espulsi perché il paese dei loro genitori, la Bosnia-Erzegovina, non li ha mai censiti e quindi non sa chi sono. L’ennesimo caso di razzismo istituzionale?
E l’integrazione di cui tanto si parla?

La rivolta sociale greca

mercoledì, Aprile 25th, 2012

In Grecia sta succedendo qualcosa di potenzialmente esplosivo dal punto di vista dei processi di emancipazione. Per capire le dinamiche che vi si stanno dispiegando bisogna sforzarsi di avere uno sguardo disincantato, il più possibile sganciato da adesioni emotive e da facili partigianerie. Non si tratta di capire chi ha torto e chi ha ragione. Questo lo sappiamo già perché è di un’evidenza lapalissiana.
Ha ragione il popolo dei diseredati, l’insieme di tutti coloro che vengono ulteriormente impoveriti in modo sistematico, assassinati socialmente da una politica il cui vero scopo non dichiarato è quello di salvaguardare l’arricchimento speculativo di una plutocrazia spietata, la cui ricchezza si nutre di un costante accumulo finanziario che immiserisce i non abbienti, massacrando di conseguenza chi già ha poco, pochissimo, o addirittura nulla.
Il resoconto quotidiano delle scelte e del disegno dei potenti incombe. Oggi chi conduce il gioco politico dei paesi economicamente più deboli si trova con facilità sovrastato, addirittura incanalato, da chi tira i fili implacabili ed efferati dell’alta finanza. Da qualche anno questa è cronaca di tutti i giorni. Con dovizia di particolari i vari notiziari, i diversi network, gli analisti dell’informazione, la baraonda insomma che ne parla senza tregua, quotidianamente ci comunica lo strazio continuo di governi ricattati e sottomessi da altri governi più potenti. Sostenendo di agire per salvare il salvabile e per non affossare definitivamente i popoli loro affidati, questi signori obbediscono alle oligarchie sopranazionali dominanti e prendono decisioni capestro che ricadono sulle loro genti, senza nemmeno consultarle. In un paese debolissimo come la Grecia la gran parte della popolazione, sottoposta a questa mannaia politica ed economica, si trova ridotta all’indigenza e all’invivibilità.
Intanto la ricchezza dei più ricchi cresce di pari passo col crescere della povertà dei più poveri. Questo è l’intrattenimento cui siamo costretti ad assistere. Questa è la dannazione che siamo costretti a vivere. E non se ne vede né se ne intuisce la fine. Anzi, ci sentiamo impadroniti dalla certezza che, se anche prima o poi ci sarà una pausa in questo gioco al massacro, nulla di ciò che è stato maltolto verrà mai in qualche modo restituito ai più. La regola non scritta imperante, imposta vigliaccamente senza nessun accordo, è che quando loro guadagnano se va bene noi non perdiamo nulla, mentre quando sono in difficoltà le loro perdite si riversano su di noi e sta a noi pagare i loro disastri. I guadagni sono solo di pochissimi, mentre le perdite vengono socializzate, di fatto sulla pelle di chi già non sta troppo bene. In natura soltanto la stupidità dell’essere umano si permette masochisticamente il “lusso” di un tale disequilibrio.
Tra popolazione esasperata e forze dell’ordine
Abbiamo così il popolo greco in ginocchio, affamato e derubato, sostanzialmente per mantenere in auge un sistema fondato sulla rapina perpetrata da oligarchie che hanno la possibilità e l’abilità di accumulare rendite finanziarie. Per le stesse ragioni e all’interno dello stesso gioco, probabilmente allo stato greco seguiranno altri stati, sempre economicamente deboli, tra cui in prima fila quello italiano. Come sta succedendo in Grecia il disastro statale si riverserà su genti e popolazioni, inevitabilmente provocando inenarrabili rovine sociali ed esistenziali.
In questo quadro inquietante, le cui tinte reali in verità sono molto più fosche, la reazione popolare, cioè la qualità delle ribellioni a un simile insopportabile sopruso di portata gigantesca, acquista un valore niente affatto indifferente. La ribellione popolare esplosa in Grecia, oltre a manifestare in modo evidente la volontà generale di non accettare supinamente le abiette misure lacrime e sangue, non dà l’idea di essersi ancora espressa in tutta la sua portata potenziale. Non c’è dubbio che in Grecia è in atto una vera e propria rivolta sociale che sta cercando, a tratti in modo intuitivo a tratti con razionalità, una strada convincente per provare a uscire dal baratro senza fondo in cui sta precipitando. Più o meno tutti i greci ora sanno, o sono sul punto di sapere, che la strada possibile per non essere inghiottiti dall’abisso di questo rovinoso sistema capitalista in auge non può passare attraverso le logiche imposte dallo stato e dal suo governo. Ciò che solo pochi, per ora, cominciano a intuire è che non può non passare attraverso la ricostruzione dal basso di rapporti sociali, politici ed economici rivoluzionati e innovativi.
Ne consegue che tra la popolazione esasperata e le forze di polizia spesso si verificano scontri diretti, che con sempre più frequenza assumono connotati furibondi di travolgente violenza. È inevitabile, dal momento che lo stato vorrebbe ridurre i suoi cittadini a sudditi, pretendendo accettazione supina e obbedienza cieca riguardo a qualsiasi decisione dei suoi organi istituzionali. Così la frequenza di occasioni di scontri durissimi sta cambiando la qualità e le modalità del modo di condurli. Da una parte le forze di polizia ogni volta sembrano più incattivite e intervengono con aumenti di brutalità. D’altra parte la popolazione giustamente non vuole sottomettersi e fiuta con grande rabbia l’insopportabile ingiustizia. Sia aumenta la propria collera per il senso d’impotenza da cui è vieppiù pervasa, sia si sta abituando al fatto di doversi difendere da feroci aggressioni poliziesche ogni volta che decide di dimostrare nelle piazze la propria determinazione di opporsi.
Questa progressione, che ha aspetti sia emotivi che razionali, è apparsa in tutta evidenza durante la manifestazione di domenica 12 febbraio, quando nella tradizionale piazza Sintagma si sono trovate concentrate diverse centinaia di migliaia di persone (100.000 secondo la stampa ufficiale, 250.000 secondo le cifre fornite dagli stessi manifestanti). In quella manifestazione è successo qualcosa di nuovo. Per la prima volta le centinaia di migliaia di persone presenti per protestare, dopo esser state aggredite in modo spropositato dalle forze dell’ordine senza una ragione che non fosse pura repressione, hanno sostenuto, incitato e in un certo senso richiesto l’intervento di chi era risoluto a fronteggiare la polizia in modo efficace ed estremamente deciso. Praticamente la massa presente per protestare contro il governo ha incitato compatta ed ha partecipato attivamente a risposte di lotta violenta contro le forze governative. Questo non lo dicono solo i compagni presenti, che è ovvio, ma tutta la stampa normalmente più o meno schierata contro l’uso della violenza per protestare.
La guerriglia è generale. Coinvolge uomini e donne di ogni età. Gente comune, scesa in piazza per la prima volta, ma decisa comunque a far sentire la propria voce… Atene Brucia. Di rabbia e di violenza. Molti me lo gridano in faccia: «È solo l’inizio. Se passano le misure per noi è finita. Allora sarà guerra. Guerra per vivere o morire.» È la lucida e sincera testimonianza dell’inviato Daniele Mastrogiacomo (“la Repubblica”, lunedì 13 febbraio). Sono gli stessi compagni del sito dei comunisti libertari greci a sottolineare che c’è una differenza nel modo di partecipare della gente rispetto alle situazioni precedenti. Solo che, stavolta, la gente ha reagito – scrivono.
L’autogestione non è una novità

La rivolta sociale sta dilagando di fronte a disperazione e morte della speranza che avanzano, generate e incitate da governi asserviti in pieno alle esigenze del dominio finanziario, le cui scelte uccidono la società. È però una rivolta che va conosciuta e capita nella complessità della sua dimensione, non limitabile ai momenti dello scontro di piazza. Nei fatti sta assumendo aspetti, di cui non si parla a livello mediatico, molto meno spettacolari ma molto più interessanti. Si tratta di pratiche e di avvio di esperienze che, se riusciranno a prendere piede a livello di masse di persone, nel lungo periodo risulteranno molto più efficaci ed incisive della mera rivolta di piazza, la quale invero non ha molte possibilità di riuscita e d’incisività oltre il nichilismo devastatore che facilmente assume. Se infatti la rivolta si limita ai momenti insurrezionali, quando va bene, ma è molto raro, riesce a bloccare la contingente azione governativa o a nullificare aggressioni repressive, senza però dare avvio a qualcosa di nuovo destinato a permanere; quando ci riesce aiuta ad abbattere o a fermare il nemico, ma è insufficiente per essere liberante.
Le testimonianze dirette dei/le compagni/e e ciò che scrivono nei loro siti fanno supporre con chiarezza che in Grecia è in atto, e a poco a poco si sta dilatando, un fermento sociale innovatore, che non solo si oppone con forza e determinazione alle misure capestro cui il popolo è sottoposto, ma che cerca strade nuove per emanciparsi dalla condizione socio/economico/politica cui è costretto. La crisi devastante che sta mettendo a dura prova il popolo greco sta fungendo da detonatore e involontariamente lo spinge a mettere in atto dei processi di potenziale innovazione rivoluzionaria. Ovviamente, se si vuole che questi processi riescano effettivamente a originare situazioni emancipative, non possono essere lasciati a se stessi.
Ma la realtà trova la sua strada spontaneamente… – è scritto sempre nel sito dei comunisti libertari greci – …i problemi veri, quelli della gente, e non i falsi ideologici dei politici… costringono la gente ad organizzare la sua vita in un altro modo… Per la prima volta nella storia della Grecia moderna, l’autogestione non è una novità. Nessuno si stupisce ormai di niente. Sembra in effetti che siano diverse, ed in aumento, le situazioni spontanee occupate ed autogestite, diverse tra loro, ma tutte in vario modo orientate a tentare di cominciare a costruire nuove modalità di produzione e d’intervento lavorativo, non più espropriato da enti istituzionali, multinazionali, banche, o quant’altro, bensì mantenuto sotto il controllo e la gestione delle comunità sociali che hanno occupato ed espropriato per lottare, per salvaguardare la propria sopravvivenza. Accanto a queste c’è anche il tentativo di mettere in piedi una rete di distribuzione autogestita che sia in grado di sottrarsi alle fauci della distribuzione mercantile.
L’emittente radio della chiesa ortodossa per poco non veniva occupata – Sai che novità… l’emittente televisiva ALTER è occupata e autogestita dai lavoratori. L’ospedale di Kilkis è occupato e sotto il diretto controllo dei lavoratori. Nessuno sa quante aziende si trovano in sciopero oppure sono state occupate. Continua nella sua informazione il sito dei libertari greci. Ampi servizi sull’occupazione e sull’autogestione dell’ospedale di Kilkis sono stati fatti tra l’altro da siti di controinformazione italiani e trasmessi su Yahoo e Indymedia, in cui si dà rilievo alle proposte di lotta e di azione votate dalle assemblee in lotta. Stiamo assistendo all’inizio di una diserzione sociale in costante fibrillazione, all’interno della quale si mescolano in un vortice incontrollabile voglia di resistere e di non essere sottomessi, bisogno di nuovo sganciato dalle logiche del mercato capitalista, paure, dubbi, rabbia, disperazione. A tutti gli effetti è in atto una rivolta sociale i cui contorni si devono ancora delineare.
Ricostruzione sociale
In una tale contingenza è importantissimo che nessuno si faccia prendere da derive nichiliste. L’insurrezione è inevitabile e va bene perché la sua determinazione è in grado di bloccare l’azione repressiva del potere. Ma gli eventi e i momenti insurrezionali non possono essere considerati i punti di forza della rinascita sociale e della ricostruzione emancipativa, che invece si rafforzano attraverso la costruzione alternativa, plurale, molteplice e radicale di nuove relazioni sociali, di nuove metodologie politiche di scelta e di decisione, di nuove forme economiche di produzione scambio e distribuzione. La ricostruzione sociale gestita direttamente dalle comunità lascerà il segno e darà avvio a concrete speranze, mentre il puro e semplice abbattimento dei poteri costituiti lascerà lo spazio a incognite incontrollabili dai più, storicamente controllate da oligarchie di furbi e spregiudicati con la capacità di prendere in mano le situazioni e il potere. Per essere autentica e permanere l’autogestione non può essere improvvisata, mentre va realizzata con consapevolezza e scienza.

FONTE: A Rivista Anarchica 
ARTICOLO DI: Andrea Papi

Michele Ferrulli, un’altro morto di “malapolizia”.

lunedì, Aprile 23rd, 2012
Michele Ferrulli

Michele Ferrulli era un’uomo di 51 anni, 147 kg. e neanche 1 metro e 80.
Il 30 giugno 2011 alle ore 22 circa, ascoltava musica ad alto volume a Milano in via Varsavia di fronte ad un bar.

Per gli agenti che intervennero l’uomo era troppo “aggressivo” e “ostile”, per cui, 13 minuti dopo, fecero arrivare i “rinforzi”.

La collutazione che ne seguì fu talmente animata che i quattro poliziotti affronteranno un processo per eccesso colposo nell’omicidio colposo di Michele Ferrulli, poichè le manganellate di quella sera e il tipo d’intervento lo fecero fuori. 

Il giorno seguente gli agenti firmeranno un rapporto, chiaramente artefatto, perchè immediatamente smentito da un video girato con un telefonino di un testimone oculare presente quella sera.

 

L’autopsia del 5 luglio parlerà di “insufficienza contrattile acuta del ventricolo sinistro, con edema polmonare e cerebrale”, quindi la sbornia di quella sera, secondo i medici, non c’entrava nulla con la morte.
Fu ucciso dalle botte.
Oggi, è stato recapitato ai quattro agenti, l’avviso di chiusura delle indagini, e con esso giunge anche la perizia definitiva della parte civile scritta, ancora una volta, da Gaetano Thiene dell’università di Padova (perito anche nei processi Aldrovandi e Cucchi) che chiarisce e conferma inequivocabilmente quello che era emerso dall’autopsia;
la causa della morte, si legge dalla perizia, e stata “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”.

Nel nostro “bel paese” si consuma quindi, l’ennesimo sopruso da parte delle forze dell’ordine, che ormai diventa, storia di tutti i giorni.

Lascio a voi i commenti… 

La pratica della sterilizzazione forzata in Uzbekistan.

lunedì, Aprile 16th, 2012
Dall’articolo Uzbekistan’s policy of secretly sterilising women scritto da Natalia Antelava e pubblicato il 12 Aprile sul sito dell’emittente britannica BBC.

…”Alla BBC è stato raccontato da alcuni dottori che l’Uzbekistan sta portando avanti un programa segreto di sterilizzazione delle donne; la BBC ha parlato con donne sterilizzate senza che avessero espresso il loro consenso o senza che ne fossero a conoscenza”.

E’ così che inizia l’articolo.

In Uzbekistan, paese rurale, la vita è incentrata ancora sui bambini, avere tanti bambini in quel contesto significa avere successo. Una delle donne intervistate dalla BBC confessa di essere triste, di sentirsi un fallimento. Lei si è accorta della rimozione quando, non riuscendo più a restare incinta, ha fatto degli accertamenti e scoperto l’insospettabile verità: era stata sterilizzata durante l’operazione di taglio cesareo con cui aveva dato alla luce il suo ultimo figlio. Quando ha chiesto spiegazioni la donna si è persino sentita dire da un dottore “E’ la legge qui in Uzbekistan”, ma ovviamente non è vero non esiste nessuna legge per la sterilizzazione forzata, si tratta di un programma che il governo cerca di tenere segreto anche se piano piano la verità sta venendo a galla.
La giornalista Natalia Antelava racconta che i giornalisti non sono benvenuti in Uzbekistan pseudo-repubblica governata dal regime dittatoriale di Islam Karimov (ex comunista, rimasto a galla dopo il crollo del socialismo reale, i pochi osservatori presenti in Uzbekistan durante le elezioni del 2004 hanno lamentato l’assenza di candidati che non sostenessero Karimov, insomma le elezioni che lo hanno riconfermato al potere sono state farsesche) e che lei è stata espulsa dal paese a Febbraio
Le testimonianze da lei raccolte in questo articolo derivano da interviste a donne Uzbeke che si sono rifugiate in un paese vicino (il Kazakhstan, dove possono stare relativamente tranquille) ma anche da testimonianze raccolte via telefono per mail, attraverso messaggi arrivatele per mezzo di corrieri, e che combaciano con alcune testimonianze di medici, di ginecologi.
Una delle testimonianze anonime raccolte dalla giornalista è la seguente: “Ogni anno ci viene presentato un piano. Ad ogni dottore viene detto quante donne ci si aspetta che lui sterilizzi e a quante ci si aspetta che lui fornisca la contraccezione. C’è una quota, la mia è di quattro donne al mese“.
Ovviamente il dottore che ci fornisce queste informazioni non ha voluto nè potuto fornire il suo vero nome e cognome, perché sa che potrebbe andare in galera in uno stato per altro dove la tortura in carcere è del tutto normale.
Una madre testimonia invece che infermiere dell’ospedale locale cercano ripetutamente di convincere le donne a farsi operare, “perché adesso l’operazione è grati, mentre in seguito non lo sarà più, occorre approfittarne”
Ovviamente la rimozione dell’utero non è una banale operazione di sterilizzazione, ma è la rimozione di un organo importante della donna, ben inserito nel funzionamento del suo sistema ormonale, e la sua rimozione può causare inconveniente più o meno gravi. Ci sono donne che testimoniano inspiegabili dolori e perdite di sangue dopo l’ultimo parto e di un’ecografia rivelatrice che mostra l’assenza inspiegabile dell’utero. Alle sue richieste di chiarimenti i medici hanno risposto con grande freddezza: “A che ti serve avere ancora figli? ne hai già due!”
Infatti basta fare un controllo con un qualsiasi motore di ricerca per trovare che in seguito all’isterectomia possono capitare per esempio:
infezione della ferita o cistite;
danni alla vescica oppure ai dotti che trasportano l’urina dai reni alla vescica, causati dal bisturi;
trombosi venosa, coagulo di sangue che si potrebbe creare nelle gambe.
Al link sopra segnalato si legge una testimonianza non molto rassicurante: “ho 28 anni e ho subito questo intervento totale appena 1 anno fa e oggi mi sento una vecchia; devo sempre andare a fare pipi e mille altri problemi“.
Una delle poche organizzazioni non governative che operano in Uzbekistan denominata Expert Working Group, dopo un’indagine durata sette mesi  ha raccolto le prove di circa 80.000 sterilizzazioni effettuate in quel periodo.
I primi casi sono stati resi pubblici nel 2005 da Gulbakhor Turaeva, una patologa che lavorava nella città di Andijan e che per puro caso aveva scoperto il fenomeno. Nella sua ingenuità ha raccolto le prove per renderle pubbliche, ma così facendo ha ottenuto in cambio prima il licenziamento e poi la prigione per comportamente antistatale (sembra di leggere i verdetti dei vecchi tribunali comunisti).
L’articolo segnala poi che i parti cesarei sono balzati all’incredibile cifra dell’80 per cento del totale (il tasso normale è circa del 7 per cento). E’ chiaro che una volta che la donna è sotto anestesia si può rimuovere l’utero o annodare le tube di fallopio per sterilizzarla.
Per altro il regime dittatoriale di Karimov inizia ad essere ben visto in Occidente che ha persino rimosso le sanzioni precedentemente comminate al suo regime; anche il divieto statunitense di vendere armi all’Uzbekistan è stato recentemente rimosso (pare in funzione dell’aiuto che l’Uzbekistan può offrire ai militari USA in Afghanistan, mettendo a disposizione le sue strade per i rifornimenti)

Lo Stato Italiano: se sei lesbica? Sei malata…

giovedì, Aprile 5th, 2012

Secondo i moduli del dicastero della salute il “lesbismo” è una vera e propria malattia. E non si tratta di una gaffe, ma di una classificazione vecchia di anni che rimarrà in atto ancora per molto tempo a causa dei ritardi burocratici

Per quanto suoni strano, è ufficiale: per lo Stato le lesbiche sono “malate”. Non è l’ultima sparata di Carlo Giovanardi, né lo slogan omofobo di qualche facinoroso dell’ultradestra. Lo mette nero su bianco il modulo “Icd9-cm”, vale a dire l’elenco ufficiale delle patologie e dei traumi varato per decreto dal ministero della Salute. A pagina 514, capitolo 302, paragrafo “0”, è inserito il “lesbismo egodistonico”, classificato dunque a tutti gli effetti come malattia per gli enti pubblici, per l’Inps che sulla base di quegli elenchi certifica disabilità e invalidità, per Comuni e Regioni, ospedali e istituti di previdenza. E così scoppia il caso delle “lesbiche malate”, finora sfuggito perfino ai dirigenti di viale Trastevere. E si annuncia bufera a Montecitorio, fra interrogazioni già firmate dall’Italia dei Valori e proteste della comunità gay, incredula di fronte a quella che suona come l’ennesima discriminazione.

Nel Paese della burocrazia elefantiaca accade anche questo. Mentre l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) ha cancellato l’omosessualità dall’elenco delle malattie il 17 maggio del 1993, in Italia sopravvive in un documento ufficiale quel riferimento alle donne omosex. Eppure la lista è stata aggiornata nel 2007 dall’allora ministro del Pd Livia Turco e poi ratificata, senza correzioni, dal ministro del Pdl Ferruccio Fazio nel 2009. Ma non è bastato.

ARRIVA LA CONFERMA
Una drammatica svista? Una versione troppo datata? Una bufala? Macché. Basta telefonare all’Inps e domandare: “Scusi, dottore, qual è l’elenco delle malattie che usate per le pratiche?”. Un gentile dirigente conferma che è proprio il famigerato “Icd9-cm”, lesbiche incluse. Stessa cosa negli ospedali. E ancora all’ufficio legislativo della Regione. Fino al dicastero guidato da Renato Balduzzi . Sulle prime all’ufficio del ministro cadono dalle nuvole: “Non è imputabile a noi”, precisano. “Questo è ovvio”. Poi a viale Trastevere partono le verifiche. Si cerca il direttore generale. Si passano al setaccio i decreti. Finché arriva la conferma: “Il “lesbismo egodistonico” è presente nel testo in vigore”, spiegano. La ragione? “Quell’elenco è la traduzione di un documento dell’Agenzia federale americana. Un elenco, in effetti, già decaduto e sostituito da anni a livello internazionale dal modello successivo, appunto “Icd10″, dove il riferimento al lesbismo non c’è più”. Peccato che l’Italia non si sia ancora adeguata al nuovo testo, “perché la procedura è complessa”, aggiungono nell’entourage del ministro.

Nel frattempo le lesbiche si dovranno tenere la loro malattia di Stato. Ma per quanto? Forse per anni. Non è dato sapere: “Ci stiamo adeguando, ma la tempistica è piuttosto lunga. La nuova classificazione modifica tutto, codici e procedure chirurgiche. Cancella il vecchio sistema e l’intero capitolo 302.0. Difficile dire quando entrerà in vigore anche in Italia”. Impossibile anche l’intervento riparatore in extremis. Un decreto, cioè, che cancelli la malattia di lesbismo in attesa del nuovo testo: “Non sono ammesse modifiche parziali del decreto, solo l’adozione del nuovo elenco Icd10”, precisano al ministero. “Quindi bisognerà aspettare”. Non i dipietristi, però, che già lunedì vogliono sollevare il caso in Parlamento con un’interrogazione di Silvana Mura, mentre il responsabile diritti civili dell’Idv, Franco Grillini, parla di “discriminazione di Stato inaccettabile”.

OMOFOBIA RECORD
Anche perché fra traduzioni datate e vuoti legislativi, l’omofobia in Italia cresce. E nel 2011 segna un picco record. L’Unar, l’ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali della presidenza del Consiglio, nella relazione di pochi giorni fa al Parlamento per la prima volta ha analizzato gli atti di violenza contro gay, lesbiche e trans. Con un primo dato allarmante. Fra le matrici della discriminazione l’orientamento sessuale sale al secondo posto dopo i motivi razziali con il 25 per cento dei casi. Un dato confermato dal Viminale, che dal 2010 ha attivato l’Oscad, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori guidato dal vicecapo della polizia.

di Tommaso Creno tratto da L’Espresso